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La novità de Gli esami non finiscono mai sta soprattutto nel suo impianto che partecipa un po’ della colorita animazione burattinesca delle farse di Scarpetta; la comicità malinconica di Eduardo rivela in questa commedia il legame con l’antenato maggiore e quello minore, entrambi appartenenti alla grande razza dei creatori totali di teatro. Lo stile si avverte fin dall’inizio. Nel prologo Eduardo spiega che tre barbe finte, una nera, l’altra grigia e l’altra bianca, simboleggiano la giovinezza, l’età di mezzo e la vecchiaia del protagonista. Ma dopo la spiegazione, invece di fissarsi al mento la barba nera, Eduardo se l’aggancia con gli elastici a un bottone della giacca e dice alla gente: «Tanto ormai avete capito». Questo non era scritto, nel testo. E in questo piccolo estro di improvvisazione c’è tutto lo stile di Eduardo, di questa stagione straordinaria della sua arte. È uno stile che si lascia dietro gli accessori, uno ad uno; non ha bisogno di fingere, ma soltanto di accennare; tende sempre di più all’astrazione, ma non all’astrazione da tavolino, bensì a quella vivente della riduzione dell’essenziale. Questa commedia ha per scene, oltre a pochi oggetti d’arredo, dei gustosi fondalini di Mino Maccari fatti scendere contro le quinte nere. Niente altro. In fondo all’itinerario di Eduardo c’è sempre meno da vedere e sempre più da ascoltare, o meglio da intuire attraverso quei miracolosi connubi eduardiani tra parole, gesti, silenzi, sguardi. Tutto il terzo atto eduardo lo passa in silenzio; segue le parole e le azioni degli altri commentandole con la mimica, emette qualche suono inarticolato. Non è la malattia del personaggio, è la sua volontà. In fondo al circuito di una vita costellata di esami insensati e malfidi, c’è il traguardo della tesi di laurea del silenzio. Sembra che nella sua poltrona di malato volontario Eduardo abbia trovato quello che andava cercando il suo lontano progenitore, il misantropo molieriano; un luogo appartato dove sia data la libertà di essere uomini d’onore.